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Codice Autore: 5c952c61a5d49
Sezione: Adulti
Titolo: Andiamo a vedere papĂ 





“E Carlo? Ci sono novità?”

Scuoto la testa, anche se non può vedermi. E' dieci minuti che mi tiene al telefono parlando del più e del meno, ma in realtà questo voleva sapere: se Carlo sta ancora lassù. Mi siedo sul bracciolo del divano. L'appartamento è inondato di luce, filtra attraverso le tende leggere prese all'Ikea.

“Nessuna novità, mamma.”

“La tv non ne parla da un po', al tg non dicono più niente.”

“Non è mica il Grande Fratello” le dico, più brusca di quanto vorrei. Ma sono stanca, e prima di sera ho un sacco di cose da fare.

“Che c'entra, certo. Lo so bene.”

“Dai, ti saluto. Devo andare a prendere Mattia, adesso.”

“Vuoi che ci vada io?”

“No, gli ho detto che passavo. Sennò ci resta male. Poi è un momento complicato, questo.”

“Chiama, se hai bisogno. Lo sai che sono qua.”

E' una brava persona. A volte rompe, e spesso il suo modo di vedere le cose non coincide con il mio. Ma è una brava persona, e mi vuole bene. Poter contare su di lei allevia la pressione, è come la rete di protezione per un trapezista.

 

Oggi è primavera, il giubbino quasi non serve. Mi prendo il sole sulla faccia, cerco di non pensare a niente. Appoggiata ad un albero, aspetto che i bambini sciamino in cortile. Controllo il telefono, ma Carlo mi ha scritto un paio d'ore fa; non mi aspetto novità, prima di sera. Stamattina ne è sceso un altro, anche se non l'hanno detto: vogliono evitare che sembri una resa. Sono rimasti in cinque, ormai.

Mi perdo via, come sempre in questi giorni. E' Mattia a venirmi incontro, anche se dovrebbe essere il contrario. Mi tira i jeans, per prendermi in giro. Sorride, Dio Santo. Dentro questo casino, riesce ancora a sorridere.

“Buongiorno, eh?” dice a voce alta, imitandomi.

Mi abbasso all'altezza dei suoi boccoli, che sanno di buono. Lo stritolo e lo scompiglio, gli faccio il solletico. Lui ride felice. E' una felicità che non si spiega, clandestina; eppure sta lì, sulla sua faccia fiera. Ha le stesse labbra di suo padre, lo stesso naso; lo stesso modo di guardare il mondo.

“Andiamo a vedere papà?” mi domanda.

Lo sapevo che me l'avrebbe chiesto. Avrei i panni da stirare, e lui i compiti da fare, non ci sarebbe tempo per andare da Carlo. Ma l'aria è tiepida, e Mattia ha bisogno di suo padre. Mi esce il sorriso complice di quando gliela do vinta. Lo scompiglio ancora, tirandomi su. “Però ci stiamo poco, va bene?”

Mattia esulta con i braccini in aria, come quando la sua squadra vince all'oratorio. Vogliono giocare tutti i in attacco, lui è il solo che abbia chiesto di poter giocare da libero. L'allenatore gli aveva fatto notare che il ruolo di libero non esiste più, dai tempi di Franco Baresi. Lui aveva risposto che non importava, voleva comunque giocare così.

 

La zona è transennata, anche se di Polizia ormai c'è poco o niente.

All'inizio è stato un gran casino, tra forze dell'ordine e giornalisti. Fa sempre un po' notizia, un gruppo di operai che sale sul tetto di una fabbrica per difendere il posto di lavoro. Erano in dieci, una settimana fa; avevano giurato che sarebbero scesi solo quando la proprietà si fosse dimostrata disponibile a trattare. Metà di loro si è arresa in pochi giorni, al muro di silenzio e indifferenza: sono tornati giù, più tristi di quando si erano arrampicati tra antenne e pale di ventilazione. I sindacati dicono che non si può fare niente, i licenziamenti sono già stati firmati. Per questo Carlo e gli altri sono saliti là sopra: li hanno lasciati soli, e loro da soli hanno fatto. La verità è che non sta servendo a nulla. In fondo non frega a nessuno, la sorte di qualche decina di operai sfigati.

Ci sediamo sulla panchina. Quella blu, dalla quale si vede bene il tetto. Mattia accanto a me, composto come la domenica in chiesa, col mento fiero e gli occhi puntati in alto. Da qui non si distinguono i lineamenti dei cinque superstiti, grandi come formichine. Una volta ho perfino pensato di portarmi il binocolo, per consentirgli di vedere meglio suo padre, ma alla fine ci ho rinunciato: non è mica una partita di calcio, questa. A Mattia però ho raccontato qualcosa di simile, perché avevo bisogno di proteggerlo. Gli ho detto che è una gara a eliminazione, una prova di resistenza che si sono inventati per premiare l'operaio più tenace: chi rimane sul tetto più di tutti gli altri vince una vacanza in Sardegna. Non so perché mi è uscita 'sta cosa, la prima volta che gliel'ho raccontata, e un po' mi sono sentita una ladra. Ma avevo troppa paura: paura che Mattia si spaventasse, paura che si vergognasse di noi. Soprattutto questo: paura che si vergognasse di noi.

E poi sarebbe davvero bello, andare in Sardegna: dicono che lì il mare sia una favola, roba da far concorrenza ai tropici. Per noi il mare è sempre stato quello di Porto Garibaldi, sulla Riviera Adriatica. Che in fondo non è neanche male, a parte l'acqua un po' così: la gente è simpatica e non se la tira; la spiaggia ampia, perfetta per i bambini. Bisogna sapersi accontentare, prendere il buono che c'è.

“Quanti sono, adesso?” mi chiede Mattia, senza scollare gli occhi dal tetto. Ha lo stesso tono di quando mi domanda cosa stia facendo l'Inter.

“In cinque. Sono rimasti soltanto in cinque” gli dico, guardando nella stessa direzione. Mancano i panini e una coperta sulle ginocchia, poi il campeggio sarebbe perfetto. Cerco di capire quale formichina sia Carlo, ma da qui non si riesce a distinguere nulla.

“Dici che la fa, papà? Dici che alla fine vince lui? Io ne sono sicuro! Ne restano pochi, ormai!”

Mi viene da piangere. E come sempre mi tocca piangere dentro, mentre fuori imbastisco un sorriso spaventato. La disperazione stride col tepore di questo pomeriggio, con la vita che ha fatto il giro e rinasce, con gli occhioni all'insù di Mattia. Mi sono inventata questa cosa della gara ad eliminazione per proteggere mio figlio dalla realtà, e adesso mi accorgo che è davvero così. Solo che è una gara dalla quale Carlo è già stato eliminato, e noi con lui.

Ripenso alle parole di mio marito, prima di salire sul tetto di quella maledetta fabbrica. “Lo faccio per lui” aveva detto, indicando la camera di Mattia. Aveva gli occhi bagnati e il respiro corto, la faccia stanca di chi non dorme da settimane. L'ho abbracciato forte, quando è andato via. Da allora è una voce al cellulare, un'ombra sfocata in cima a quel tetto. Ma è la mia ombra, e le ombre ti restano incollate addosso: sono dove sei tu, e tu sei con loro, finché c'è abbastanza sole per poterti accompagnare.

Mattia mi strattona una coscia, sorride. E' una fucilata in faccia, quel sorriso. E' qualcosa che non merito, che dovrei restituire a qualche cavolo di mittente immaginario. Mi sento sporca, mi sento cattiva; mi sento la versione sbagliata di tutto ciò che mio figlio avrebbe dovuto ricevere in dono da questi giorni distratti.

“Ti va un gelato?”

Lo chiede lui a me. Nel mondo reale dovrebbe essere il contrario, ma qui di reale non c'è più niente. Siamo seduti su una panchina di fronte ad una fabbrica transennata, con uno sparuto gruppo di operai in cima al tetto a lottare per un posto di lavoro che non c'è più, e io a mio figlio ho raccontato tutt'altro. Mi sono inventata una dimensione parallela, che non sta né in cielo né in terra. Un giorno mio figlio mi odierà per questo, ma davvero non ho uno straccio di alternativa: la mia ombra sta in cima a quel tetto, e non posso scollarmi da qui. Del resto neppure Mattia lo vorrebbe, neppure se gli raccontassi la verità. Resterebbe comunque qui, su questa panchina, ad incitare suo padre; a difenderlo da questi giorni distratti, con la stessa grinta di quando gioca da libero.

Annuisco. Ricaccio indietro le lacrime, con tutta la forza che ho. Guardiamo entrambi all'insù. Mattia mi sfiora una mano con la sua. Lo guardo, perché ha una voce strana. Sembra triste adesso, come se una nuvola lo avesse offuscato.

“Dai che torna presto” gli dico, scompigliandogli i capelli.

“Speriamo” dice Mattia. Mi sorride, ma non sembra convinto. “Comunque per me ha già vinto. Anche se non scende per ultimo, va bene lo stesso. Non è così importante, la vacanza in Sardegna. L'importante è che torna a casa con noi.”

Me lo tiro contro: è il solo modo per impedirgli di vedermi piangere. Mi aggrappo alla grammatica per soffocare il magone, gli correggo il congiuntivo come antidoto alle lacrime. “L'importante è che torni. Devi parlare bene, ok?”

Mattia accenna un sì, imprigionato nel mio abbraccio difensivo. “L'importante è che torni” ripete.

Non so cosa abbia capito, di tutto questo. Mi chiedo se per lui sia davvero un gioco, il nostro stare seduti su una panchina ad aspettare il ritorno di Carlo. A volte ho come l'impressione che Mattia sappia che non c'è nessuna gara, e che suo padre è stato licenziato; ho come l'impressione che sia lui ad imbonire me, per farmi restare tranquilla.

“Andiamoci a prendere questo gelato” gli dico. “Tu come lo vuoi?”

So già che cosa mi dirà, prima ancora che apra bocca. Sbircio la sua faccia fiera: ha le stesse labbra di suo padre, lo stesso naso; lo stesso modo di guardare il mondo.

“Pistacchio” risponde Mattia, da dentro il mio abbraccio.

“E pistacchio sia.”

Guardiamo un'ultima volta all'insù, verso il tetto della fabbrica. Se solo penso a quello che ci aspetta, a come potrebbero mettersi le cose, mi prende un'ansia che toglie il respiro. Ma non serve a niente, me lo ripeto ogni giorno. Devo restare calma, devo restare lucida. Devo concentrarmi sulle cose belle, perché sono quelle che contano. Mio figlio è qui con me, su questa panchina. Carlo è in cima a quel tetto, e presto tornerà con noi. In fondo è davvero così, non mi importa del resto. Qualunque cosa accadrà, sono fortunata: ho due ombre che vegliano sui miei passi, e ad entrambe piace il pistacchio.



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