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Codice Autore: 5a7210288d3fc
Sezione: Ragazzi
Titolo: Una destinazione inaspettata





Giorno 1: prima della partenza

Era uno dei soliti pomeriggi noiosi e monotoni. Io ero sulla mia scrivania a controllare che tutto fosse pronto per il viaggio che avrei dovuto fare il giorno dopo con la mia migliore amica. Stavo organizzando quel viaggio da mesi e volevo assicurarmi che tutto fosse perfetto. Dopo ore e ore di duro lavoro, finalmente mi dedicai alla preparazione della valigia. Era sempre tutto disordinato e la confusione che c’era nella mia testa si rifletteva in quella sorta di bagaglio. Ero così agitata che non ragionavo più in modo lucido e allora iniziai a girovagare per casa senza un preciso motivo ripetendo tra me e me che se avessi sbagliato qualcosa sarebbe andato tutto in fumo, come quando la nonna aveva incendiato la cucina mentre provava a cucinare un dolce francese di cui non ricordo neanche il nome. Nella mia testa c’erano troppi pensieri senza senso, ma decisi comunque di riprendere la preparazione della mia valigia. Alle 21:00 in punto finii, come avevo programmato, e mi buttai sul letto che in quel momento mi sembrava l’unica cosa di cui avessi bisogno. Ero stanca ma in un certo senso ero soddisfatta di essere riuscita a finire nel tempo previsto, e con l’adrenalina che mi scorreva ancora nelle vene, mi addormentai.

Alle 2:00 di notte mi svegliai in preda all’agitazione. Avevo avuto un incubo ed ero  ancora spaventata perché era così realistico che mi sembrava di esserci intrappolata dentro. Per distrarmi, andai in salotto, presi la lista delle cose da portare per il viaggio, la rilessi spuntando tutto quello che avevo messo via e mi tranquillizzai. Non sono mai stata una maniaca del controllo e della perfezione ma in quel momento lo ero più che mai. Alle 3:00 decisi di tornare a letto e puntai la sveglia alle 6:00. Stranamente mi addormentai subito, con la lista piena di segni di penna rossa ancora tra le mani.

Giorno 2: inizia il viaggio

6:01. Ero in ritardo di un minuto, come al solito. Avevo perso un intero e preziosissimo minuto a fantasticare su come sarebbe andata la giornata. In fretta e furia mi sistemai con quel poco di trucco che non avevo messo in valigia, feci una colazione veloce, presi tutti i miei bagagli e salii in macchina diretta verso la casa della mia compagna di viaggio nonché la mia migliore amica Giorgia. Nel tragitto, ogni tanto mi guardavo nel piccolo specchietto della macchina: il trucco sbavato, i capelli disordinati, ricci e ingestibili, e i vestiti che parevano un minestrone di colori. Ero un vero disastro, ma in quel momento non mi importava di ciò che avevo addosso; ero troppo impegnata a tranquillizzarmi. A un certo punto la macchina si fermò e davanti a me si stagliò la grande villa bianca che vedevo quotidianamente. Passavano i minuti e quel colore bianco opaco era diventato quasi accecante anche  senza luce del sole. Per fortuna in quella distesa di mura bianche,ad un certo punto vidi una sagoma che si avvicinava sempre di più; era goffa e impacciata come sempre. Quando le andai incontro, la abbracciai e iniziammo a saltare, gridando con la voce stridula come delle teenager quando vedono un ragazzo carino. Ma quel momento divertente e anche un po’ liberatorio, finì presto quando guardai l’orologio: erano le 7:16. Eravamo in ritardo; avevo programmato di partire, diretti per Milano Malpensa, alle 7:14. Dissi a mio padre di sbrigarsi e, data la poca lontananza dall’aeroporto, arrivammo a destinazione alle 7:20. Dopo aver fatto gli ultimi saluti e il check-in, ci rimaneva un’ora di attesa; sinceramente avevo programmato di meno, ma mi dovetti rassegnare al fatto che avevo sbagliato a fare i conti. Alle 8:30 fu pronto il nostro aereo diretto a Parigi, in Francia. Una volta salite a bordo ero del tutto soddisfatta e rilassata, e allora mi concedetti di sprofondare in quei grandi sedili della prima classe che profumavano di pulito, e con mia grande sorpresa mi addormentai.

Penso di aver dormito per circa due ore; mi svegliai solo quando l’assistente di volo avvisò di prepararsi all’atterraggio. Il paesaggio era strano, non era come avevo visto nei siti di viaggio. Non badando molto a questo piccolo particolare, Giorgia ed io ci dirigemmo verso il ritiro bagagli. Stavo osservando attentamente il nastro trasportatore quando vidi una cosa insolita che fece sorgere in me dei seri dubbi e molte preoccupazioni. La cosa che vidi era un cartello con la scritta: “ Bem vindo a Lisboa”. Mi prese il panico: “ Come mai c’è un cartello che indica di essere a Lisbona?” “Cosa ci facevamo in Portogallo?”. Avevo così tanti pensieri nella testa che sotterrai quello più importante: dovevo dirlo a Giorgia. Quando se ne accorse, anche lei fu presa dal panico; non conoscevamo il posto, non sapevamo  dove andare a dormire e non sapevamo parlare il portoghese. Il mio obiettivo di organizzare un viaggio perfetto era andato a rotoli e ci dovemmo rassegnare al fatto che saremmo dovute rimanere lì, in quella città a noi sconosciuta. Dovevamo però organizzare un piano; presi un foglietto e iniziai a scrivere i punti di una lista come se dovessi andare a fare la spesa. La prima cosa da fare era uscire dall’aeroporto, chiedere informazioni e riuscire a raggiungere la zona più popolata. Uscimmo e cercammo un taxi che ci portò nel centro città. Lisbona non l’avevo mai vista, se non di sfuggita mentre sfogliavo le riviste, e non mi aveva mai entusiasmato particolarmente, ma, appena il tassista ci lasciò in “ Plaza de Comercio”, (credo che si chiamasse così), rimasi sconvolta dalla bellezza che mi circondava; le case vicine, le stradine strette simili a quelle di Napoli, i tram tipici del posto, il mare blu e cristallino e la voce dei cittadini con l’accento spagnolo … era tutto meraviglioso. Per un attimo mi dimenticai della situazione in cui ci eravamo cacciate, poi però fui riassalita dal panico.  Una volta essermi calmata,dovevo spuntare il punto due: trovare un alloggio. Non parlando bene l’inglese tanto meno il portoghese, non sapevo a chi rivolgermi. Iniziai a camminare avanti e indietro, cercando nei più segreti angoli della mente per trovare una soluzione. Per quanto mi sforzassi, non giunsi a nessuna conclusione allora mi sedetti su una panchina di legno, rassegnata. A un certo punto sentii che Giorgia mi aveva preso per mano e mi stava portando da qualche parte; non sapevo dove stesse andando o cosa avesse intenzione di fare, ma mi fidai di lei. Dopo una lunga corsa per tutto il paese, mi ritrovai di fronte ad una bellissima casa gialla ocra con le imposte delle finestre azzurre. Non capivo che stesse succedendo. Non sapevo chi ci abitasse. La cosa strana era che Giorgia suonò al citofono e il proprietario ci aprì subito. Giorgia mi trascinò per l’atrio e per le scale come se in quel posto ci fosse stata milioni di volte. Dopo tre rampe di scale, si fermò davanti ad una porta e bussò. Ci aprì un ragazzo probabilmente della nostra età, alto, con gli occhi blu come il mare e con un ciuffo castano scuro un po’ scompigliato. “ Olà, raparigas,tà tudo?”. Non capii una singola parola di quello che mi disse, parlava veloce come un treno e non terminava le frasi; ma chi fosse quel ragazzo non lo sapevo e non capivo perché ci trovassimo lì; ovviamente chiesi subito a Giorgia di darmi spiegazioni, ma non mi diede alcuna risposta. Di fatto, questo ragazzo ci fece entrare in casa sua; era abbastanza piccola, molto allegra, con ampie finestre aperte con vista mare e l’arredamento era abbastanza retrò, un po’ insolito per un ragazzo della sua età. Io sinceramente mi sentivo molto a disagio al contrario di Giorgia che era molto serena e tranquilla. Finalmente dopo qualche minuto il ragazzo misterioso ricominciò a parlare: “ io mi chiamo Enrique, parlo anche l’italiano quindi vi capisco. Tu sei l’amica di Giorgia giusto?”. Non riuscivo a parlare. L’unico suono che riuscii a produrre fu un piccolo mugolio che stava a significare  sì. Finalmente Giorgia mi spiegò tutto: che Enrique è il suo nome d’arte essendo un musicista, che era suo cugino, che si era trasferito da un anno a Lisbona e che si era offerto di ospitarci. Ero ancora incredula a quello che mi aveva detto, ma mi sforzai di sembrare tranquilla. Dopo aver posato i bagagli, uscii e feci un giro. Mentre passeggiavo tra quelle vie, pensavo tra me che cosa avessi sbagliato nell’organizzazione del viaggio; non riuscivo a darmi delle risposte e allora scacciai via tutti quei pensieri e mi concentrai solo su quello che mi circondava. Alla fine non era così male Lisbona e di sicuro la compagnia non mi dispiaceva.

Si fece buio e per me era il momento di tornare nel mio alloggio dove mi aspettavano per la cena. Mentre ero a tavola, continuavo a guardare Enrique; lo osservavo, lui mi osservava: un gioco di sguardi un po’ infantile. Finita la cena, tutti andarono a dormire tranne me; mi diressi verso l’ampio balcone a guardare le stelle, con la brezza che mi scompigliava i capelli. L’idea di essere completamente sola in quella città mentre tutti dormivano, mi dava una sensazione non di superiorità ma di appartenenza, come se vivessi lì da anni.  Ad un certo punto sentii dei passi che si avvicinavano sempre di più; mi voltai e vidi Enrique. Si avvicinò a me, senza dire una singola parola. Si affacciò e iniziò a guardare le stelle seguendo uno schema logico che non avevo ancora compreso. Mi guardò, si avvicinò sempre di più fino a sfiorarmi le labbra e poi …

… “ Signorina! Signorina! Si svegli! Stiamo per atterrare! ” mi svegliai di soprassalto. Non capivo cosa stesse succedendo; allora ancora mezza addormentata, chiesi: “  Ma dove siamo? Dov’è Enrique? Siamo ancora a Lisbona?”. La signorina con l’abito blu mi disse: “ Signorina, siamo atterrati in Francia e mi dispiace ma non so chi sia Enrique. Ora si calmi e si prepari per scendere ”.

Ancora intontita, collegai tutto. Io ero a Parigi, non a Lisbona. Era stato solo uno dei miei sogni un po’ troppo realistici. Chissà se incontrerò un Henri anche a Parigi!



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