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Codice Autore: 5a70ce66cb260
Sezione: Ragazzi
Titolo: Compagno di viaggio





Mi siedo nella terza fila a destra. La sensazione di freddo dei sedili di plastica dell’autobus è una cosa che non provavo da mesi e la mia prima reazione è un brivido che mi attraversa la schiena. Il mio odio verso i mezzi pubblici è tale da avermi convinto, tempo fa, a comprare una macchina. Prima ero sempre stata costretta a usare lo z324 per compiere il piccolo viaggio da Trezzo fino all’ ospedale di Vimercate, dove lavoro. Insomma: fosse stato per me, io stamattina non ci sarei salita neanche morta su quell’autobus, ma ieri ho avuto un incidente tornando a casa. Fortunatamente ne sono uscita indenne, mentre la mia povera piccola Panda è finita dal meccanico.  

Quindi eccomi qui, circondata dalle facce stanche delle stesse persone che ho imparato a riconoscere da quando, sei anni fa, ho iniziato ad usare lo z324. Sono tutti al solito posto, come per una magica abitudine: nella seconda fila c’è Marco, il panettiere di Bellusco. Ha una quarantina d’anni, è  single e sovrappeso. Tra tutti i compagni di viaggio è quello che mi da più fastidio: mi ha sempre guardata di nascosto, sperando di non farsi notare, con degli occhi che definire da pervertito sarebbe poco. Mi sono sempre tenuta alla larga da lui. Però oggi Marco non sembra minimamente interessato a me: se ne sta in disparte, al finestrino, con un’aria da cane bastonato e una tristezza che quasi fa pena. “Dev’essergli successo qualcosa’’ penso. “Se neanche si accorge della mia presenza come minimo deve essergli morto il cane’’.

Dietro di me c’è Marta, una ragazza che lavora in un negozio di fiori nel centro di Vimercate. Abita a Busnago e ha sempre un sorriso da ebete stampato in faccia. In verità le invidio questa sua leggerezza e l’aria sempre allegra. Al suo fianco c’è la Rosi, una vecchia decrepita molto amica di mia madre. Nella mano destra tiene un bastone da passeggio, senza il quale cadrebbe spiaccicata per terra; nella sinistra stringe un rosario. La Rosi si sveglia sempre la mattina presto, prende il bus e scende a Bellusco, dove è nata, e una volta lì si dirige verso la chiesa, da dove uscirà solo un paio d’ore dopo per tornare a casa. Se qualcuno le chiede il perché di questa sua fede così devota lei risponderà : “Lì in chiesa il Nostro Signore Gesù mi parla, mi dice cosa è accaduto il giorno prima e cosa accadrà il giorno dopo! E mi ripete che, quando arriverà la mia ora, avrò un posto assicurato in paradiso!’’.

Questi sono i personaggi tipici dello z324, ma ovviamente non sono gli unici; c’è almeno un’altra decina di persone che conosco e so per certo che scenderanno a Bellusco. E infatti, appena si aprono le porte, ecco che Marco e la Rosi, insieme ad un gruppetto, scendono dall’autobus. Al loro posto entrano altre facce stanche. Solo una di queste non mi sembra familiare: è quella di un vecchio. E’ vestito di nero e porta un cappello a cilindro di quelli che si vedono solo nei film. In mano ha un taccuino e una penna. Appena sale sull’autobus comincia a guardarsi intorno, come se stesse cercando qualcuno. Quando per un istante i nostri occhi si incrociano io distolgo subito lo sguardo: quella frazione di secondo mi è bastata per capire che in lui c’è qualcosa che non va. La sua faccia, pallida e scavata, sembra nascondere un segreto e assomiglia di più a quella di un uccello che a quella di un uomo. Mi fissa per un po’, poi viene verso di me e con una voce inaspettatamente calda mi dice: “Ciao, amica mia, potrei sedermi qui accanto a te?’’. Cerco di nascondere l’imbarazzo e l’inquietudine. “Certo, si accomodi” rispondo, mentre mi alzo per farlo accomodare. “Grazie, amica mia. Se non ci fossi stata tu sarei stato costretto a rimanere in piedi”.

Lo z324 riparte e il mio strano compagno scrive fitto sul taccuino, e intanto continua a parlare: “Non sai che fortuna ho avuto ad incontrarti, amica mia; vedi, io non riesco proprio a fare un viaggio senza qualcuno che mi stia accanto. A proposito: dove sei diretta?” L’autobus è appena entrato in una via piena di dossi. Il suono duro delle ruote che sobbalzano è come quello dei battiti del mio cuore. “All’ ospedale”, rispondo. Lui non batte ciglio: “Davvero? Io pensavo che la tua destinazione e la mia fossero la stessa, ma a quanto pare tu ti fermi molto prima…”. Rimango di stucco: tutti sanno che il capolinea dello z324 è proprio l’ ospedale di Vimercate.

Comincio a sudare: chi è quest’uomo, cosa vuole da me? Spio il suo taccuino: sopra c’è una lista di nomi. Li scorro e vedo anche una Veronica. Il mio nome. Ma non significa niente. Però le mie mani si stringono senza volerlo.

Arriviamo alla stazione di Vimercate. Mi alzo e corro verso l’uscita. Il vecchio non si accorge neanche di me, è troppo impegnato a scrivere sul suo taccuino. Una volta giù, il malessere sembra sparito: “Da domani si torna al lavoro da soli, piuttosto col taxi” dico tra me. Vedo un altro autobus arrivare e ci salto dentro; dovunque vada per me va bene. Mi siedo, e la felicità di essermi tolta dalle scatole quel vecchio pazzo è talmente grande da non farmi accorgere, inizialmente, che non c’è nessun passeggero. Strano, a quest’ora. “Cos’è uno scherzo?” penso, e guardo verso il conducente. Dietro al vetro zigrinato riesco a notare che la sua testa ha una forma strana, allungata. Poi di colpo capisco: porta un cappello a cilindro. Mi rintano dietro lo schienale e intanto, dal finestrino, spio il percorso dell’autobus, che si dirige verso la campagna. Tiro fuori il cellulare dalla borsa e chiamo il mio ragazzo, Andrea. “Dai rispondi!” penso.

Ecco la sua voce: “Pronto?”.

Bisbiglio per non farmi sentire: “Sono io. Devi aiutarmi, un pazzo ha preso il controllo di un bus e mi sta portando chissà dove, so che sembra una follia, ma devi credermi! Chiama la polizia!”.

Silenzio,  un silenzio troppo lungo.

“Chi sei?”

“Come chi sono? Sono io, Veronica!”

Ancora silenzio, poi alza la voce : “Non mi interessa chi sei, ma questo scherzo è crudele! Se vuoi solo dare fastidio a chi sta soffrendo…”.

“ Dare fastidio?”, dico confusa. “Di cosa parli? non capisco…”.

“Ah, non capisci! Ho i risultati dell’ autopsia proprio qui!”

“Autopsia…?”.

“Già, proprio così: AU-TO-PSI-A! Te la leggo, se vuoi, sciacallo! “Ieri verso le 18.30 Veronica Stucchi, di anni 23, ha avuto un incidente automobilistico. Il suo corpo presenta tre ferite causate dalle penetrazione di parte della portiera della macchina nell’addome. Nonostante i tentativi di salvarla da parte dei medici, Veronica è deceduta alle 19.15.”.

Lascio cadere il cellulare, che rimbalza sul pavimento di gomma. Andrea sta ancora urlando. Ora si spiega tutto: perché Marco stamattina non mi guardava. Perché la Panda era ridotta ad un colabrodo e, soprattutto, si spiega chi sia in realtà quel vecchio. Mi alzo e lentamente mi dirigo verso il conducente che, come se mi vedesse anche senza voltarsi, dice: “Siediti, amica mia. Il nostro viaggio è ancora lungo e faticoso, adesso devi riposare.”

Ha una voce calma, calda, dolce. La voce di chi sembra conoscerti da una vita.

“D’accordo” gli dico. Mi appoggio sul sedile, che ora non è più freddo come questa mattina. Semplicemente mi siedo, chiudo gli occhi e mi faccio cullare dal soave silenzio della morte.



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