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Codice Autore: 5a5f25a2db3b5
Sezione: Adulti
Titolo: PELLEGRINO VA ALLA MERICA





Pellegrino arrivò alla Merica il 14 settembre 1910. Non è dato sapere la data di partenza. Aveva diciassette anni e veniva da un piccolo paese in provincia di Salerno, Montecorvino Rovella. Portava con sé una valigia con i suoi pochi averi: un vestito buono per “figurare”, attrezzi del suo mestiere, il calzolaio (calzolaio di lusso, come sempre disse con orgoglio), l'inseparabile clarino, qualche libretto d'opera – come lasciare a casa la Lucia di Lammermoor? - e una medaglietta della Madonna della Neve, veneratissima nel suo paese, che sua madre, benedicendolo, gli aveva messo al collo quando era partito con altri quattro giovani compaesani. La stessa medaglietta volle stringere nella mano quando, cinquantatré anni dopo, partì per il suo viaggio definitivo.

Pellegrino non aveva avuto un'infanzia facile. Era figlio di secondo letto e aveva ereditato il nome della prima, e mai dimenticata, moglie di suo padre. Quest'ultimo era morto presto, lasciando la seconda moglie con tre figli suoi e un numero imprecisato di figliastri da sfamare. Mamma Antonietta era una donna energica; non si perse d'animo e trasferì la famiglia da Salerno alla sua natia Montecorvino, dove mandò i figli maschi a imparare un mestiere: calzolaio, sarto. Angelina, la figliastra più grande, si sposò nel 1902 e subito si imbarcò per Nuova York con il giovane marito, un bravo scalpellino con simpatie socialiste.

Anche Pellegrino era socialista. Nei bui anni a venire non volle mai chiedere la tessera del Fascio e rischiò il confino, che riuscì a evitare solo perché fabbricava scarpe su misura per il podestà e la sua numerosa famiglia. Comunque, a diciassette anni, ormai padrone del mestiere, sognava una bottega tutta sua, ma per allestirla ci volevano soldi e lui non ne aveva. Le rare lettere della sua sorellastra Angelina non parlavano di strade lastricate d'oro né di possibilità infinite da cogliere con facilità, ma lasciavano capire che alla Merica si mangiava tutti i giorni, che i bambini potevano andare a scuola, che un lavoratore forte e volenteroso alla fine della settimana portava a casa una paga che, con un po' di sacrificio, bastava alle necessità quotidiane e consentiva un piccolo accantonamento per qualche progetto.

Il ragazzo cominciò a pensare che qualche anno a Nuova York gli avrebbe dato la possibilità di raccogliere i soldi necessari per mettere su una dignitosa bottega; si consigliò con mamma Antonietta e, con il suo incoraggiamento, si mise alla ricerca dei soldi per il viaggio. Come riuscì a raccoglierli? Oltre ai suoi pochi risparmi e a quelli della madre, ricevette l'aiuto dei Malfetano, i suoi cugini che avevano raggiunto a Nuova York una buona posizione economica grazie al commercio di vestiti confezionati e di abiti di scena; in restituzione del prestito avrebbe dovuto lavorare per loro facendo ciò in cui eccelleva: costruire scarpe di lusso.

Così, con un bagaglio striminzito e tanti sogni, in un giorno imprecisato dell'agosto 1910 arrivò a Salerno con mezzi di fortuna e lì prese il treno per Napoli. Al porto il delegato di polizia controllò svogliatamente i suoi documenti – ogni giorno gli passavano davanti centinaia e centinaia di persone, quasi tutti giovani uomini, tutte dirette alla stessa meta e non ne poteva più di facce allo stesso tempo terrorizzate e speranzose - e finalmente Pellegrino vide il transatlantico su cui aveva prenotato con tanti sacrifici un posto in terza classe.

La nave Duca di Genova era ai suoi occhi immensa. Era nuova, perché era stata costruita nel 1907, era lunga centotrentanove metri e larga sedici e poteva trasportare fino a milleottocentotrentasei passeggeri, poca cosa ai nostri occhi abituati a navi da crociera grandi come città, ma un mostro pronto a divorarlo per un ragazzo di diciassette anni senza alcuna esperienza! Era una nave per disperati, per emigranti; soltanto ottanta posti erano in prima classe, sedici in seconda e ben millesettecentoquaranta in terza. Per le navi mercantili, infatti, la tratta degli emigranti era molto più redditizia del trasporto di ogni altra merce.

Quando Pellegrino salì a bordo gli fu difficile trovare un posto. La nave era partita da Genova, imbarcando centinaia di persone provenienti da tutta l'Italia del Nord. Tutti viaggiavano in steerage, cioè con un biglietto che non garantiva un posto, ma la possibilità di occupare uno spazio libero in qualsiasi punto della nave lontano dalla prima classe. Naturalmente chi si era imbarcato per primo si era appropriato dei posti meno schifosi, così al ragazzo non restò che penetrare nelle viscere della nave, accolto da un fetore di umanità non lavata e di escrementi che lo spinse a tornare rapidamente sul ponte e ad assicurarsi uno spazio microscopico a poppa, dove la chiglia sprofondava nel mare per il carico eccessivo. Là, lottando per non cadere in acqua, per difendere il suo posto e i suoi averi, trascorse i circa diciotto giorni di viaggio, in preda al vomito, alla diarrea e alla fame, invisibile per il personale, nulla più che un collo, nemmeno delicato, da trasportare. Vide, per la prima volta in vita sua, la violenza gratuita dei derelitti verso altri derelitti – la ritrovò qualche anno dopo sul Monte Nero dove, povero fantaccino terrone reclutato da una patria che non gli aveva dato niente, sparò agli Austriaci, poveracci come lui, e ne fu ferito. Vide bambini morire di stenti e aiutò a lavare i loro poveri corpicini prima di strapparli dalle braccia delle madri e affidarli al mare.

Capì perché gli emigranti meridionali chiamavano spartenza la loro esperienza: non era soltanto una partenza, era il distacco completo dal mondo conosciuto, dalle certezze e l'ingresso in una dimensione nuova, fatta di dolore.

Come fece a sopravvivere? A conservare la salute mentale e la speranza?

Pellegrino aveva un grande amore, che lo accompagnò e sostenne per tutta la vita: l'opera lirica. Suonava la tromba e il clarinetto nella banda del suo paese e conosceva a memoria i pezzi e le romanze più popolari di Donizetti, Rossini e Verdi. Purtroppo non poté più suonare a causa del proiettile austriaco che gli trapassò la gola e la guancia, ma rimase un appassionato frequentatore dei loggioni dei teatri per tutta la vita. Mentre era in viaggio per la Merica, però, la sua musica lo sostenne nei momenti bui. I marinai gli riempivano la gavetta di cibo che nemmeno i cani avrebbero mangiato? Lui si consolava suonando pezzi de Il barbiere. I compagni di viaggio piangevano in preda alla nostalgia? Lui risollevava il loro morale con L'Elisir d'amore. Un giovane pensava ad alta voce alla fidanzata lontana? Pellegrino accarezzava le sue pene con le note della sua amata Lucia di Lammermoor.

All'inizio del viaggio ognuno se ne stava con quelli del suo paese. Del resto, come potevano capirsi Veneti e Napoletani, Liguri e Lucani? Non condividevano la lingua, avevano abitudini alimentari diverse, nemmeno le usanze sembravano le stesse. Ma a poco a poco fu proprio la spartenza ad avvicinarli. Separati completamente dal vecchio mondo, per non soccombere al dolore cominciarono a guardare veramente gli altri e scoprirono che avevano in comune moltissimo: una patria dove per loro non c'era posto, la speranza di un futuro migliore, il sogno di una possibilità.

Pellegrino conobbe operai lombardi cacciati dalle fabbriche perché attivisti sindacali, contadini veneti che avevano perso tutto, bestiame e famiglia, a causa di inondazioni ed epidemie, artigiani abruzzesi perseguitati perché anarchici. Tutti avevano deciso di tagliare i ponti con l'Italia matrigna e di portare altrove il loro coraggio e la loro intelligenza. Per tutti loro suonò note confortanti e sentì molto più vicini quegli uomini che venivano da luoghi di cui conosceva l'esistenza solo grazie ai suoi ricordi scolastici, piuttosto che i galantuomini del suo paese, con i loro vestiti all'inglese, l'arroganza verso gli umili, l'abitudine al compromesso.

A poco a poco Pellegrino non si sentì più tanto solo e derelitto. I suoi compagni e lui cominciarono a considerare il tempo del viaggio come una zona franca in cui il passato perdeva consistenza e il futuro ancora era modellabile in base ai loro desideri, tanto che quando si accorsero che l'approdo era vicino, avrebbero quasi voluto allontanarlo, per non perdere la solidarietà che si era creata tra loro.

Ma una mattina un fischio acuto svegliò tutti gli emigranti che dormivano ammassati in coperta. Si sentirono urla di entusiasmo, i cappelli furono lanciati in aria, i padri sollevarono i bambini perché vedessero per primi quello che sarebbe diventato il loro paese.

Eccola là Madama Libertà, con la sua fiaccola ben tesa verso l'alto. Segno di che? Presagio felice del mondo luminoso che li aspettava? O piuttosto nuova minaccia dei forti ai deboli? Chi poteva dirlo?

Pellegrino aveva sofferto e penato, aveva visto morire alcuni dei suoi compagni di viaggio, non sapeva se gli sarebbe stato permesso rimanere, ma ce l'aveva fatta, aveva passato l'oceano, c'era arrivato alla Merica; quello era il momento di gioire, al resto c'era tempo per pensarci.

 

 



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